C’è un episodio, avvenuto pochi giorni fa in un’università italiana, che merita più attenzione di quanta ne abbia ricevuta. Durante un evento culturale, un relatore invitato a intervenire non ha potuto nemmeno iniziare a parlare: una parte del pubblico lo ha etichettato come “fascista” e ne ha impedito fisicamente la partecipazione. Il suo peccato? Essere un conservatore.
Non un violento, non un nostalgico del Ventennio, non un propagatore d’odio. Semplicemente: un conservatore. E questo è bastato.
L’episodio non riguarda solo la maleducazione di chi trasforma l’università – il luogo della ricerca critica – in un tribunale improvvisato. Riguarda qualcosa di più profondo: l’impoverimento del nostro linguaggio pubblico.
Wittgenstein lo aveva previsto: quando usi le parole male, il pensiero si rompe
Nel Tractatus Logico-Philosophicus, Ludwig Wittgenstein scrive che molte delle questioni filosofiche non sono false: sono insensate. Perché? Perché usano le parole in modo scorretto. Se una parola viene applicata a realtà diverse, perde precisione, poi significato, poi verità. E infine diventa un’arma.
È esattamente ciò che sta accadendo alla parola “fascismo”. Un termine storico, preciso, drammatico, che dovrebbe evocare un periodo oscuro della nostra storia, oggi viene usato come etichetta istantanea per zittire qualunque voce conservatrice, identitaria, non allineata al pensiero dominante. Il risultato non è un dibattito più consapevole, ma un dibattito più insensato, per usare l’espressione di Wittgenstein.
L’abuso del termine “fascismo” è una scorciatoia per evitare il confronto
L’atto di impedire a un relatore di parlare non è un gesto politico: è un fallimento culturale.
È la prova che una parte del nostro Paese ha smarrito la capacità di distinguere tra ciò che può essere criticato e ciò che va censurato. Tra ciò che è pericoloso davvero e ciò che è semplicemente diverso.
Soprattutto è la prova che abbiamo perso un principio elementare della convivenza democratica:
il diritto di parola non appartiene a chi urla di più, ma a chi è disposto a parlare con competenza e rispetto.
Usare la parola “fascista” come insulto universale è la negazione di ogni serietà intellettuale. È un sintomo di competenza ferita: incapaci di confutare un’idea, si elimina l’oratore.
La Rivoluzione Gentile parte da qui: ridare alle parole il loro significato
La gentilezza non è debolezza: è precisione morale. È l’impegno a non usare la lingua come un manganello. È saper distinguere. È chiamare le cose con il loro nome, come chiedeva Wittgenstein: un nome per una cosa sola, mai lo stesso nome per fenomeni diversi.
Se tutto è “fascismo”, allora niente lo è più. E quando le parole perdono confini, perdono valore. E quando perdono valore, perde valore anche la democrazia.
La mia Rivoluzione Gentile nasce da questo: dal recupero della competenza nel linguaggio, dalla responsabilità delle parole, dalla volontà di restituire al confronto pubblico il suo spessore umano e intellettuale.
Perché un Paese non si divide quando discute: si divide quando smette di poter discutere.
Chi ha impedito a un relatore conservatore di parlare non ha difeso la libertà: ne ha limitato il respiro.
Non ha combattuto il fascismo: ne ha riprodotto la logica, che è sempre la stessa, a qualunque latitudine storica si presenti. La logica che zittisce invece di argomentare.
L’università dovrebbe essere il luogo dove si impara a distinguere, non a confondere. Dove il pensiero si affina, non si arma. Dove le parole pesano, non esplodono.
Per questo racconto quell’episodio non come una polemica, ma come un monito: o rimettiamo ordine nel linguaggio, o perderemo ordine nella democrazia.
Questa è, ancora una volta, la via della Rivoluzione Gentile.